L'emergenza Covid-19 ha introdotto nelle nostre vite un nuovo lessico. Parole che non avevamo mai pronunciato prima, e con cui ci troviamo a misurare gesti, atteggiamenti, opinioni. Ci ha reso familiare un mondo di cifre e statistiche sulla cui base calcoliamo la personale curva dell'apprensione. Ci confronta ogni giorno con mappe del contagio che tentano di rappresentare in scale cromatiche la sofferenza e il lutto di milioni di esseri umani. Quelle espressioni, quei numeri ci sono ormai indispensabili, ci servono per aumentare la nostra consapevolezza, per capire, per comportarci di conseguenza. Per renderci responsabili, come individui e come collettività. Ma non bastano. Abbiamo più che mai bisogno, in tempi di pandemia, di aggrapparci ad altri linguaggi, quelli che non sono cambiati ma risuonano adesso di nuove sfumature. Di pronunciare parole come paura, rabbia, incertezza. Fragilità, bellezza. Distacco, vicinanza, desiderio. Di ricorrere alla scrittura come forma di testimonianza e reazione, segno di prossimità, ritratto inquieto del presente e proiezione verso un futuro che ci accomuna tutti, oltre ogni geografia.
Per questo il "Corriere della Sera" ha dato spazio a 17 voci, italiane e internazionali, per un personale contributo sul tempo del Coronavirus. Una presenza che ciascuno ha interpretato in libertà, ricorrendo alla forma della poesia, del racconto, del diario, dell'analisi. Perché, mentre ci chiediamo insistentemente cosa resterà di questo momento, nella storia e nella memoria personale, mentre piangiamo ciò che abbiamo perso e speriamo che tutto questo non passi invano, di una cosa siamo sicuri. C'è un posto nel mondo. Quel posto siamo noi. Quel posto è qui.
L'emergenza Covid-19 ha introdotto nelle nostre vite un nuovo lessico. Parole che non avevamo mai pronunciato prima, e con cui ci troviamo a misurare gesti, atteggiamenti, opinioni. Ci ha reso familiare un mondo di cifre e statistiche sulla cui base calcoliamo la personale curva dell'apprensione. Ci confronta ogni giorno con mappe del contagio che tentano di rappresentare in scale cromatiche la sofferenza e il lutto di milioni di esseri umani. Quelle espressioni, quei numeri ci sono ormai indispensabili, ci servono per aumentare la nostra consapevolezza, per capire, per comportarci di conseguenza. Per renderci responsabili, come individui e come collettività. Ma non bastano. Abbiamo più che mai bisogno, in tempi di pandemia, di aggrapparci ad altri linguaggi, quelli che non sono cambiati ma risuonano adesso di nuove sfumature. Di pronunciare parole come paura, rabbia, incertezza. Fragilità, bellezza. Distacco, vicinanza, desiderio. Di ricorrere alla scrittura come forma di testimonianza e reazione, segno di prossimità, ritratto inquieto del presente e proiezione verso un futuro che ci accomuna tutti, oltre ogni geografia.
Per questo il "Corriere della Sera" ha dato spazio a 17 voci, italiane e internazionali, per un personale contributo sul tempo del Coronavirus. Una presenza che ciascuno ha interpretato in libertà, ricorrendo alla forma della poesia, del racconto, del diario, dell'analisi. Perché, mentre ci chiediamo insistentemente cosa resterà di questo momento, nella storia e nella memoria personale, mentre piangiamo ciò che abbiamo perso e speriamo che tutto questo non passi invano, di una cosa siamo sicuri. C'è un posto nel mondo. Quel posto siamo noi. Quel posto è qui.