La volta che dovette incontrare Gianni Brera, suo futuro maestro prima alla «Gazzetta dello Sport» e in seguito al «Giorno», il giovane Gianni Clerici si presentò in Galleria, a Milano, con in mano una fiammante racchetta Dunlop Maxply per farsi riconoscere. Nulla di più profetico, se poi la sua «non carriera giornalistica» – così la chiama lui, che alla definizione di giornalista è sempre stato riluttante – si è legata in modo indissolubile al tennis, raccontato, come apprezzano gli aficionados che da tanti anni lo seguono, quasi fosse «un'arte minore, una piccola filosofia quotidiana, un modo di vivere diversamente, con una passione che, consumandosi a fuoco lento, finisce per trasformarsi in cultura».
Con il suo stile inimitabile, sempre in punta d'ironia, lo Scriba ha narrato più di mezzo secolo di tennis, assistendo ai trionfi di Laver e Borg, alle sfuriate di McEnroe, ai record di Federer, passando dal dilettantismo con le racchette di legno ai tornei dai premi milionari. E intrecciando, ai margini dei court, le vicende di questo sport con la propria immaginazione letteraria, fino a coltivare come pochi l'arte della divagazione.
Una qualità che rivive anche qui, in quella che Clerici definisce la sua «bio-eterografia», dove a scandire il racconto della propria vita sono le molte amicizie e gli eccezionali incontri: c'è l'infanzia in Riviera, la scoperta dell'«amatissimo gioco» praticato dai nobili inglesi, quindi il tennis da giocatore di buon livello e il sogno realizzato di calcare l'erba perfetta di Wimbledon; poi la rinuncia senza rimpianti all'avviata impresa paterna per dedicarsi alla scrittura, ma anche la visita a Hermann Hesse e l'incontro con Hemingway, la Milano vivissima degli anni Cinquanta e i maestri Bassani e Soldati che lo candidano al premio Strega; e, ancora, i 23 libri pubblicati e quelli bruciati, la passione per la poesia e il collezionismo .
E benché, come è suo costume, alla fine si schermisca dichiarando di «essersi accanito tutta la vita a impugnare la penna con la mano sbagliata», Gianni Clerici resta per tutti la firma, il nome e il volto del gioco con la racchetta: lui è «quello del tennis».
La volta che dovette incontrare Gianni Brera, suo futuro maestro prima alla «Gazzetta dello Sport» e in seguito al «Giorno», il giovane Gianni Clerici si presentò in Galleria, a Milano, con in mano una fiammante racchetta Dunlop Maxply per farsi riconoscere. Nulla di più profetico, se poi la sua «non carriera giornalistica» – così la chiama lui, che alla definizione di giornalista è sempre stato riluttante – si è legata in modo indissolubile al tennis, raccontato, come apprezzano gli aficionados che da tanti anni lo seguono, quasi fosse «un'arte minore, una piccola filosofia quotidiana, un modo di vivere diversamente, con una passione che, consumandosi a fuoco lento, finisce per trasformarsi in cultura».
Con il suo stile inimitabile, sempre in punta d'ironia, lo Scriba ha narrato più di mezzo secolo di tennis, assistendo ai trionfi di Laver e Borg, alle sfuriate di McEnroe, ai record di Federer, passando dal dilettantismo con le racchette di legno ai tornei dai premi milionari. E intrecciando, ai margini dei court, le vicende di questo sport con la propria immaginazione letteraria, fino a coltivare come pochi l'arte della divagazione.
Una qualità che rivive anche qui, in quella che Clerici definisce la sua «bio-eterografia», dove a scandire il racconto della propria vita sono le molte amicizie e gli eccezionali incontri: c'è l'infanzia in Riviera, la scoperta dell'«amatissimo gioco» praticato dai nobili inglesi, quindi il tennis da giocatore di buon livello e il sogno realizzato di calcare l'erba perfetta di Wimbledon; poi la rinuncia senza rimpianti all'avviata impresa paterna per dedicarsi alla scrittura, ma anche la visita a Hermann Hesse e l'incontro con Hemingway, la Milano vivissima degli anni Cinquanta e i maestri Bassani e Soldati che lo candidano al premio Strega; e, ancora, i 23 libri pubblicati e quelli bruciati, la passione per la poesia e il collezionismo .
E benché, come è suo costume, alla fine si schermisca dichiarando di «essersi accanito tutta la vita a impugnare la penna con la mano sbagliata», Gianni Clerici resta per tutti la firma, il nome e il volto del gioco con la racchetta: lui è «quello del tennis».