La musica, le incertezze del talento e l’intransigenza della vocazione, l’angoscia del fallimento e l’insostenibile ansia di perfezione, l’inafferrabile mistero delle affinità e l’ambigua precarietà dei sentimenti sono le questioni intorno a cui ruota questo breve dramma che, nella sua estrema concentrazione di luogo e azione – tre personaggi in un’unica stanza – si carica di una particolare intensità e tensione simbolica. Nella casa dove convivono Hildur e Thór, due giovani chitarristi freschi di conservatorio e avviati alla carriera concertistica, lui studiando con quotidiana testardaggine in attesa di una sospirata scritturazione che tarda a venire, lei ex bambina prodigio che sbarca il lunario insegnando ad allievi senza futuro, ricompare improvvisamente, dopo anni di silenzio, il loro Maestro. Venuto forse per offrire all’allieva prediletta l’occasione di un concerto, non se ne va più, diventando un terzo, ingombrante inquilino che turba e sconvolge i loro fragili equilibri sentimentali e artistici. Ma qual è in realtà il legame che lo unisce a Hildur, e che riaffiora a sprazzi dal passato? E soprattutto chi è davvero il Maestro, quello strano affabulatore che per suonare ha bisogno di sentirsi libero e leggero come fumo e ancorato a terra da scarpe nuove? Un mefistofelico mistificatore che offrendo versioni contrastanti dei fatti a ogni diverso interlocutore, cerca di dominarli facendo leva sui loro più nascosti desideri? Un vecchio musicista che lotta per sopravvivere? O è forse il daimon platonico, l’invisibile custode concesso agli uomini per guidarli nella vita verso la loro vera essenza, aiutandoli a realizzare se stessi? Il demone venuto a richiamare l’allieva alla sua vocazione, l’anima al suo destino, al confronto con l’assoluto della musica e al conflitto tra i propri limiti e l’aspirazione a una perfezione deviata in forza distruttiva.
La musica, le incertezze del talento e l’intransigenza della vocazione, l’angoscia del fallimento e l’insostenibile ansia di perfezione, l’inafferrabile mistero delle affinità e l’ambigua precarietà dei sentimenti sono le questioni intorno a cui ruota questo breve dramma che, nella sua estrema concentrazione di luogo e azione – tre personaggi in un’unica stanza – si carica di una particolare intensità e tensione simbolica. Nella casa dove convivono Hildur e Thór, due giovani chitarristi freschi di conservatorio e avviati alla carriera concertistica, lui studiando con quotidiana testardaggine in attesa di una sospirata scritturazione che tarda a venire, lei ex bambina prodigio che sbarca il lunario insegnando ad allievi senza futuro, ricompare improvvisamente, dopo anni di silenzio, il loro Maestro. Venuto forse per offrire all’allieva prediletta l’occasione di un concerto, non se ne va più, diventando un terzo, ingombrante inquilino che turba e sconvolge i loro fragili equilibri sentimentali e artistici. Ma qual è in realtà il legame che lo unisce a Hildur, e che riaffiora a sprazzi dal passato? E soprattutto chi è davvero il Maestro, quello strano affabulatore che per suonare ha bisogno di sentirsi libero e leggero come fumo e ancorato a terra da scarpe nuove? Un mefistofelico mistificatore che offrendo versioni contrastanti dei fatti a ogni diverso interlocutore, cerca di dominarli facendo leva sui loro più nascosti desideri? Un vecchio musicista che lotta per sopravvivere? O è forse il daimon platonico, l’invisibile custode concesso agli uomini per guidarli nella vita verso la loro vera essenza, aiutandoli a realizzare se stessi? Il demone venuto a richiamare l’allieva alla sua vocazione, l’anima al suo destino, al confronto con l’assoluto della musica e al conflitto tra i propri limiti e l’aspirazione a una perfezione deviata in forza distruttiva.